Esercito la professione di avvocato – libera professionista – da, ormai, 25 anni. Da una decina di anni mi occupo, per lo più esclusivamente, di diritto di famiglia e minorile.
Ho ottenuto alcune bellissime soddisfazioni professionali, in termini di “vittorie” giuridiche.
La prima, tra le più eclatanti, nella primavera del 2008, quale legale di un marito: l’addebito della separazione alla moglie. Con tutte le conseguenze che, a cascata, la legge prevedeva e prevede: la moglie, quale coniuge economicamente più debole, perdeva l’assegno di mantenimento per sé, oltre a essere condannata a rifondere al mio cliente tutte le spese legali.
Da lì a pochi mesi, la figlia della coppia, all’epoca una ragazzina di 10 anni che, fino ad allora aveva sempre frequentato il papà, con un pretesto o con altro, iniziava a frequentarlo sempre meno fino a non vederlo più, da gennaio del 2009.
Negli anni a seguire, con il marito, continuavamo a “vincere” in ogni sede, sia penale che avanti al Tribunale dei Minorenni, da ultimo investito della vicenda della minore su segnalazione della scuola, in quanto la ragazzina aveva iniziato a dare segni di malessere.
Grazie ad uno psicologo, nominato dal Giudice minorile suo ausiliario, i rapporti padre – figlia finalmente riprendevano, con l’aiuto del fratello unilaterale. La minore, all’epoca, aveva però, già 17 anni.
La mia gioia per il “risultato” veniva smorzata dalla tristezza di questo padre che mi contestava che nessuno gli avrebbe mai potuto restituire gli anni persi.
Che senso aveva avuto, quindi, “vincere”, se dietro alla vittoria giuridica c’era stato il fallimento di relazioni familiari e genitoriali?
Altre volte, nel corso degli anni avevo vinto. “Giuridicamente”. Molte di queste volte, dalla vittoria giuridica era conseguito il fallimento delle relazioni familiari di cui non si era riusciti a tenere in debito conto.
Se professionalmente mi potevo ritenere soddisfatta, non potevo non prendere atto che alcuni figli non frequentavano più prima l’uno e, poi, l’altro genitore, alcuni coniugi non si rivolgevano più la parola, altre volte i bambini venivano utilizzati dagli adulti come messaggeri oppure come strumento di vendetta.
Ero alla ricerca di un – non ben definito – qualche cosa. Di diverso. O di “di più”. Non sapevo ancora bene di cosa.
Poi, a luglio 2019, nell’aiutare la mia collaboratrice a cercare un corso di mediazione familiare per sé, mi imbattevo nella locandina del “Percorso formativo biennale di primo e secondo livello – secondo norma tecnica Uni 11644 2016 – per mediatori familiari 2019 – 2022 organizzato a Milano dalla dott.ssa Isabella Buzzi.
Le parole chiavi nella locandina di presentazione che catturavano la mia attenzione furono:
“Il mediatore dei conflitti familiari è esperto nella gestione della conflittualità familiare e conduce le parti in lite a riaprire il dialogo e affrontare i problemi arrivando alla pianificazione accordata di programmi educativi, comportamentali e/o accordi economici e patrimoniali in famiglia”.
Imparare a gestire i conflitti altrui. Ecco cosa mi mancava.
Dapprima la mia collaboratrice, ma poi anche io, contattavamo la dott.ssa Buzzi e prima lei e poi io, superavamo il colloquio di ammissione.
Il 25 ottobre 2019 iniziava questa “nuova” avventura: un fine settimana al mese, dal venerdì pomeriggio alla domenica sera. Fino al fatidico fine settimana di fine febbraio 2020 ed al primo caso Covid a Codogno. Poi, senza soluzione di continuità, su piattaforma fino all’esame di I° livello, abilitante alla pratica guidata supervisionata e, poi, a dicembre 2021 l’esame di II° livello, di qualifica professionale.
Un percorso personale, oltre che professionale. Da allora non sono più la stessa persona. Oggi non sono più lo stesso avvocato familiarista.
Essendomi formata come mediatrice familiare, oggi posso dire di sapere, con cognizione di causa, che cosa sia la “vera” mediazione familiare.
Conoscendo la mediazione familiare, so che cosa propongo, quando la propongo.
Mentre stavamo studiando per l’esame di I° livello, sentivamo, con Federica, che avevamo tra le mani qualcosa di “potente”: iniziavamo a pensare a come poter rendere complementari queste due professionalità, quella del mediatore familiare, ovverossia dell’esperto nella gestione del conflitto, con quella dell’avvocato.
Dovevamo pensarci. Sperimentare. E su questa cosa avevo la fortuna di potermi confrontare con una collega mediatrice, che si stava formando insieme a me.
L’occasione venne con una amica. Già mesi prima ella si era rivolta a me, in quanto avvocato, per avere alcune informazioni sull’argomento “separazione”. Voluta dal marito. Lei la subiva. Ci eravamo incontrate al bar, avevamo bevuto un caffè insieme. Poi era venuta in ufficio da me, per una consulenza. Lei insegnante, part – time, nonostante i figli fossero entrambi già all’Università.
Da amica/avvocato, mi potevo permettere di dirle che forse valeva la pena iniziare a pensare a lavorare a tempo pieno, sia per sé, come donna, che anche giuridicamente. Era meglio che fossi io a dirle ciò che, né il Giudice, né tantomeno l’avvocato del marito, le avrebbero risparmiato: che con due figli all’Università, lei sarebbe potuta ritornare a lavorare a tempo pieno. E così fece.
Quando, a distanza di qualche settimana, riceveva la lettera dal legale cui il marito si era rivolto, l’avevo dovuta sostenere. Si era sentita attaccata, offesa. Le spiegavo che a volte, noi legali siamo così. Alcuni di noi sono avvocati “gladiatori”. Di non prendersela. Di provare a parlare con suo marito e di esprimergli che la lettera del suo avvocato l’aveva ferita.
Durante una passeggiata insieme, mi aggiornava sulla circostanza che il marito era rimasto dispiaciuto dal tenore della lettera del proprio legale, che se io fossi stata d’accordo sarebbe venuto anche lui da me. In ogni caso avrebbe revocato il mandato al suo difensore.
Preferivo non ricevere anche il marito. Spiegavo alla mia “cliente” che non era scelta immotivata, ma che ove io non fossi stata, poi, in grado di aiutarli a raggiungere un accordo, non avrei potuto essere più neppure il suo di avvocato.
Le avevo raccontato del corso di mediazione familiare che stavo frequentando e avevo condiviso con lei l’entusiasmo che tale percorso aveva suscitato in me, per le sue potenzialità.
Poi, una intuizione che esplicitavo alla mia amica/cliente.
Le proponevo di pensare se voleva provare a fare alcune sedute con il marito dalla mia “collega” mediatrice familiare. Quantomeno se entrambi erano disposti a partecipare al colloquio informativo. In quella sede avrebbero potuto valutare se la mediazione faceva al caso loro.
Ove, poi, fossero riusciti, con l’esperta del conflitto e all’esito del percorso a trovare un accordo, rimanendone i protagonisti, avrei accettato di essere il legale di entrambi. Diversamente il marito doveva cercarsi un altro avvocato.
So che anche la mia collega mediatrice era stata chiara con i mediandi: aveva esplicitato loro che avendo superato solo l’esame di I° livello, era “solo” abilitata alla pratica guidata supervisionata.
Fu un successo.
Grazie all’aiuto della mediatrice, la coppia, a distanza di qualche mese si presentava da me con il loro accordo di mediazione. A me il compito di tradurlo in “giuridichese”. Quelle condizioni di separazione venivano, poi, omologate.
Da allora, forti di questo primo successo, altre volte siamo riuscite a lavorare “così”.
Con la certezza che a 55 anni, dopo 25 anni di professione chi viene da me, non viene dalla mediatrice familiare, ma dall’avvocato esperta in diritto di famiglia. In quanto mi sono formata.
Oggi, però, ogni qualvolta lo ritengo utile, già nel corso del primo colloquio, spiego al mio cliente che esiste anche la mediazione familiare ed in famiglia ed in che cosa essa consista effettivamente.
Se il mio cliente o la mia cliente mi appare aperto, convinto/a, gli /le suggerisco di proporla all’altro coniuge, come strumento preventivo alla lite in giudizio. Se la mia controparte ha già un avvocato, la propongo al collega avversario.
Quantomeno lo/la invito a fissare un appuntamento per l’incontro informativo, che preciso essere gratis. Che sottolineo essere gratis. Sarà, poi, il mediatore a fornire alla coppia, più dettagliatamente, in che cosa consiste la mediazione e quale opportunità offre loro.
Va da sé che io propongo, preferibilmente, chi so essersi formata alla mia stessa scuola, perché so cosa intende per mediazione familiare o in famiglia.
Mi dispiace, invece, quando alcuni clienti, ai quali propongo questa opportunità, oppongono un netto rifiuto, perché hanno già fatto un percorso di mediazione. Spesso, da quello che mi raccontano, comprendo che non è stata “mediazione” secondo l’accezione che io oggi intendo.
In questi casi, provo comunque a riproporla, cercando di spiegarne le differenze ma, ovviamente, è più difficile trovare apertura, disponibilità.
Ciò che vedo, quando due coniugi/genitori escono dalla stanza di mediazione con il “loro” accordo, cucito su misura su di loro, sulle loro esigenze e su quelle della loro famiglia e bussano alla porta dello studio dell’avvocato “è tutta un’altra storia”.
Ciò che essi avranno deciso, da protagonisti, circa l’organizzazione della loro vita futura verrà più facilmente rispettato perché sono stati loro, in sinergia, condotti dall’esperto/a della gestione del conflitto a determinare, con consapevolezza, le sorti di ogni singolo componente della loro famiglia.
Non è decisione imposta loro dall’alto.
In “quell’altra stanza”, sono stati aiutati a riaprire il canale della loro comunicazione che, all’evidenza, si era interrotto e sono stati sostenuti ad andare oltre le singole pretese iniziali di ciascuno, arrivando, alla fine, ad individuare la soluzione o le soluzioni, in grado di meglio soddisfare i bisogni di tutti.
Quale soddisfazione, per me oggi, quale legale, aver – in qualche modo – contribuito al ritrovato benessere di quella famiglia, forse, non più unita, ma pur sempre Famiglia.
Il compito di noi legali, in un’ottica di collaborazione, è quello di fornire sempre, se richieste, le informazioni giuridiche corrette, sia prima che durante la mediazione, affinché i clienti / mediandi possano scegliere, con cognizione di causa, cosa chiedere, cosa offrire, a cosa rinunciare, cosa accettare.
Nel convincimento collettivo l’avvocato è quel professionista per il quale “causa che pende, causa che rende”. Mi piacerebbe contribuire con il mio “nuovo” modo di lavorare, condiviso, peraltro da molti colleghi / amici a sfatare tale luogo comune.
Perché, l’avvocato, effettivamente, si può trovare a “quel” bivio: spingere il cliente in direzione della causa e, conseguentemente garantire a sé un cospicuo guadagno, almeno nelle premesse, oppure scegliere di tentare di promuovere “altro”. Incentivare, quindi, il proprio benessere economico ovvero rendersi promotore di un benessere collettivo.
Offrire un servizio qualitativamente più alto, comporterà, verosimilmente, un compenso inferiore rispetto a quello che si può legittimamente chiedere per una separazione e/o un divorzio giudiziale. Ma gli effetti “a cascata” della soddisfazione propria e del benessere del cliente non avranno ricompensa.
Con la consapevolezza che, a volte, non potrò esimermi dal litigare. Non tutte le coppie sono mediabili. Non tutti i clienti accettano il percorso di mediazione come alternativa.
Ma, con la certezza che, quantomeno per quel che è dipeso da me, io ce l’ho messa tutta, per cercare di far risparmiare loro ciò che la vittoria o la sconfitta giuridica, potrebbe, seppur non necessariamente, comportare sulla loro pelle.
Quando la professione può diventare un dono.
Articolo della dott.ssa Giovanna Stabile
Avvocato – Mediatrice Familiare – Counselor
Allieva della Scuola Buzzi – Brahmaputra Onlus