La definizione che il Modello Mediterraneo dà della mediazione familiare dice così:
la mediazione familiare è un processo di comunicazione valoriale nel quale un terzo imparziale, senza potere decisionale o consultivo, mediante il dialogo maieutico, accompagna i genitori verso la condivisione di scelte responsabili in vista della ricostruzione dei legami, lacerati dal conflitto.
Nella definizione sono presenti alcuni termini che identificano precisamente il Modello, vediamone alcuni …
L’elemento della comunicazione valoriale
La comunicazione, nel modello Mediterraneo, non si riferisce solamente alla capacità di comunicare correttamente e rispettosamente. Non è una comunicazione tout court, è valoriale.
Questo perché si ispira ai valori di Giustizia e Verità. Non una verità di soli fatti accaduti, ma di ciò che è importante per la persona. La verità è il senso che ciascuno attribuisce alle cose. La giustizia si riferisce ai bisogni e ai diritti di chi viene in mediazione.
Il mediatore sente che quei valori di cui parla, che cerca di ri-scoprire e di portare nella stanza sono innanzitutto i propri. In questo modo, così come il valore orienta il modello, il valore del mediatore orienta la costruzione del percorso di mediazione. Questa sollecitazione che si offre alle parti funziona.
Comunicare diventa allora il mettere in comune e consiste nello scambio del “dono”, inteso come munus quindi anche dell’obbligo, che non è il dovere che appartiene al ruolo di genitore, ma una tensione morale di rispondere a una situazione di difficoltà.
La risposta si fonda così su valori e conduce al Buono, al Bello, al Giusto. Porta a superare la difficoltà con dignità, a riparare la propria dignità e quella dell’altro. Tutela dignità, diritti e bisogni dei figli e in generale di tutte le persone prossime a coloro che vanno in mediazione.
Questo è l’aspetto della comunicazione valoriale.
L’elemento del dialogo maieutico
Il mediatore, nella sua funzione di soccorso, non suggerisce, non indirizza, non utilizza il potere forte della disparità di posizioni ma usa quello alla pari. Fondamentalmente quello che fa, il ruolo che ricopre, è quello di abilitare al dialogo.
Questo significa che prova, a partire da sé, ad avere una disposizione dialogica con l’altro, quindi non impone nulla, non prevarica, non prende potere su l’atro. Si confronta, accoglie ciò che viene portato in mediazione, motiva il senso che l’altro porta nel percorso rispetto ai valori che intende ri-condividere umanamente. Su questo si fonda la relazione con ciascuna delle parti che sono li.
Questo modo di costruire e portare un modello di relazione nella stanza, può essere condiviso e contaminare la relazione tra le parti: “proviamo a fare così”, “si può anche fare così”.
Il mediatore non lo spiega ma lo fa accadere. Sicuramente lo accompagna con delle parole e delle indicazioni, passando però sempre dall’esperienza, la quale viene poi nominata.
In qualche modo, le persone aderiscono all’idea che “si, questo è un buon posto perché accadono cose buone”, non ci possono credere a-priori ma recuperano, attraverso l’uso di quello che in questo luogo riscoprono, anche le loro capacità. Per questo la funzione della mediazione e del mediatore è abilitativa o ri-abilitativa.
Questo lavoro sulla reciprocità intersoggettiva è costruito con il processo maieutico, per cui è più un domandare che un dire, un indicare; è un aiutare a riflettere, un supportare la riflessione, un dialogo dove ci si rispecchia nelle cose che accadono.
Non solo capisco ma comprendo, cioè prendo dentro di me quello che è dell’altro e quello che si sta componendo, lo lavoro e lo restituisco a questa piccola comunità operosa che sta cercando di costruire un percorso.
È un aiuto alla comunicazione, in questo senso maieutica, che è anche lento, perché ci si può soffermare su ogni confronto, su ogni restituzione. C’è un tempo per ragionare sulle cose, farle sedimentare, fare delle scelte, delle esperienze che sono le costruzioni di questo scambio. È un lavorio che parte da un continuo scambio tra il dentro e il fuori.
In questo senso il fine e il mezzo quasi si sovrappongono; per superare, riparare, ricomporre, usando strumenti coerenti con l’obiettivo. Anche “la dotazione naturale” del mediatore è uno strumento che il mediatore porta nella stanza. Questa “dotazione” non è un’acquisizione permanente ma come tutte le cose umane ha bisogno di allenamento, manutenzione, aggiornamento.
La mediazione familiare è per i genitori un percorso di restituzione, di riscoperta, di riacquisizione della responsabilità.
Questa responsabilità consiste appunto nella capacità di rispondere, di dare la risposta Giusta, volta per volta, costruendola anche insieme.
Coloro che riescono a fare un percorso di mediazione, che riescono a riprendersi, riscoprirsi, riattivare la loro responsabilità, in qualche modo poi diventano essi stessi modelli di responsabilità.
Può sempre accadere nella vita qualcosa che non avevamo preventivato, che ci sconvolge, che ci danneggia, che ci ferisce, ma è in nostro potere decidere, rispondere a questa situazione componendola, superandola, ritrovando il dialogo.
Componendola perché non possiamo cancellarla ma possiamo farla appartenere alla nostra storia come un momento che ci ha permesso di diventare quello che siamo oggi. Possiamo scoprirci delle persone capaci, quindi scoprire anche questo senso di efficacia nella vita e nelle relazioni.
È bellissimo, accade nel tempo, e si diventa modelli; questo è un aspetto veramente fondamentale del meditare Mediterraneo.
“Bisogna, alle cose,
lasciare la propria quieta, indisturbata evoluzione
che viene dal loro interno
e che da niente può essere forzata o accelerata.
Tutto è: portare a compimento la gestazione – e poi dare alla luce …
Bisogna avere pazienza
verso le irresolutezze del cuore
e cercare di amare le domande stesse
come stanze chiuse a chiave e come libri
che sono scritti in una lingua che proprio non sappiamo.
Si tratta di vivere ogni cosa.
Quando si vivono le domande,
forse, piano piano, si finisce,
senza accorgersene,
col vivere dentro alle risposte
celate in un giorno che non sappiamo.”
Rainer Maria Rilke, 1903