Modelli di Mediazione Familiare
Ciclo di incontri, di condivisione e approfondimento
Quando nel 399 a.C., Socrate venne accusato, a quanto pare ingiustamente, di aver violato alcune leggi della città, l’esito del processo fu la condanna a morte oppure in alternativa, perché la sua persona era conosciuta e tenuta in considerazione, l’esilio.
Socrate che credeva e condivideva profondamente le leggi della città non poté che scegliere di rispettarle e quindi morire. Lo fece bevendo la cicuta, circondato da tutti suoi allievi, tra cui Platone.
Per Platone la morte di Socrate fu un’esperienza estremamente traumatica.
Com’era possibile, infatti, che un uomo come Socrate, che peraltro non aveva commesso nessun reato grave, venisse condannato dalla città solo perché alcune persone erano riuscite a convincere l’uditorio?
In seguito all’evento, Platone si pose il seguente problema: esistono certi discorsi di per sé falsi ma che “appaiono veri” e in quanto tali risultano convincenti.
Queste considerazioni sembrano antiche ma in realtà, se ci pensiamo bene, risultano molto contemporanee.
In seguito Aristotele, riprendendo le riflessioni fatte da Platone, introdusse una distinzione fra l’agire produttivo (poiesis) e la prassi (praxis) propriamente detta.
La poiesis (o agire produttivo) è volta al conseguimento di un fine esterno a noi. Per costruire un muro, per esempio, servono regole prefissate che alla fine dell’azione producono un risultato, il muro appunto.
Invece, al fine della prassi propriamente detta (praxis cioè azione) non si ottiene nessun prodotto. Dopo una passeggiata, per esempio, non ottengo un oggetto presente nel mondo, così come non ho dovuto seguire una regola precisa. È possibile, per esempio, andare in giro per la città senza una meta e al termine provarne addirittura un grandissimo piacere, soprattutto se si è in vacanza. Alla fine del bighellonare, tuttavia, non risulta esserci un oggetto esterno a sé.
La distinzione tra praxis e poiesis aveva per Aristotele un’importanza ben precisa, quella di limitare l’operato dei sofisti, i quali a detta di Platone si proponevano di insegnare il propagamento dell’arte del produrre discorsi convincenti, con il fine di portare l’uditorio a favore di una determinata tesi, nonostante questa fosse addirittura falsa.
Era dunque necessario proprio da un punto di vista teorico separare i concetti di prassi e produzione per arginare la tecnicizzazione della prassi.
Nel pensiero di Aristotele la tecnica ha una funzione limitata: noi ci avvaliamo della scienza, che è un tipo molto alto di sapere, mentre la tecnica è solo uno strumento, un mezzo della scienza non la scienza stessa.
Un esame medico, per esempio, consente di poter dare lettura di un determinato sintomo, ma l’esame è un mezzo non il fine; è il mezzo di cui il medico si avvale per poter dare una lettura di tipo scientifico. Il fine è la comprensione da parte del medico della patologia, per consentirgli di emettere diagnosi per la cura del paziente.
Tecnicizzare tutto, rendere la tecnica il fine stesso dell’azione e incorrere nell’errore di scambiare il mezzo con il fine, è un grandissimo rischio.
Obiettivi e speranze
Il modello Ascolto e Mediazione ha fondamentalmente due obiettivi, il primo è di far sentire la persona riconosciuta e, così facendo, si raggiunge il secondo obiettivo: farla sentire libera. Allo stesso modo è possibile porre una distinzione teorica tra il concetto di obiettivo e il concetto di speranza.
Quando il mediatore del modello Me.Dia.Re, entra nella stanza di mediazione, il suo obiettivo è che i due attori coinvolti nel conflitto si sentano riconosciuti, compresi dal mediatore, e per questo liberi.
È chiaro che dentro al cuore ogni mediatore ha anche la speranza che queste due persone entrino in dialogo tra di loro, si riconoscano, migliorino il loro rapporto e quello verso i figli.
Questi aspetti non sfuggono all’orizzonte di senso del mediatore, però restano una speranza, non l’obiettivo della mediazione.
“Stabilire in che modo il rapporto verrà gestito dai due contendenti al termine della mediazione è decisione che spetta ai soggetti coinvolti e non ai mediatori (…) la mediazione declinata secondo il modello Ascolto e Mediazione è una prassi nel senso aristotelico del termine, cioè un agire distinto dalla produzione che pur avvalendosi di tecniche non è essa stessa una tecnica. L’unico obiettivo della mediazione, stante i due capisaldi del riconoscimento e della libertà, è che i due partecipanti si sentano riconosciuti dai mediatori. Questo obiettivo naturalmente può essere accompagnato da una o più speranze: che gli attori del conflitto abbassino il livello del conflitto, che si riconoscano tra di loro, che entrino in dialogo …” *
Nel modello Ascolto e Mediazione il confronto è uno strumento affinché due persone si sentano riconosciute dal mediatore, nella speranza che raggiungano il dialogo.
Nella pratica mediativa ci sono un certo numero di persone che questo dialogo riescono a perseguirlo e conseguirlo, altre no. Però molti si sentiranno quantomeno riconosciuti e questo è il prezzo della libertà da rispettare, perché da un punto di vista deontologico, umano, è corretto nei confronti dell’altro.
* Quattrocolo A., D’Alessandro M. (2021),
Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti, Franco Angeli, Milano