Fare l’avvocato significa imparare a ragionare per fattispecie giuridiche, valutare prove e documenti. Interi frammenti di vita vengono racchiusi in fascicoli pieni di scartoffie – reali o virtuali, non importa.
Quando però l’avvocato assume il ruolo di curatore speciale del minore, le cose cambiano.
Oltre alla necessaria competenza giuridica, è essenziale che il curatore speciale del minore riesca a interloquire con il minore che, in pochi anni, è passato dall’essere “oggetto” di tutela a “soggetto” di diritti [1] e questo implica un approccio epistemologico completamente diverso rispetto a ciò a cui siamo abituati.
Innanzitutto, un curatore si trova a incontrare un piccolo umano che ha un differente mondo simbolico ed espressivo a seconda che si tratti di un infante, un bambino in età prescolare o già scolarizzato, un preadolescente, un adolescente: un’intera evoluzione racchiusa nella parola “minore”.
La novella dell’art. 80 c.p.c., terzo comma prevede che
“Il curatore speciale del minore procede al suo ascolto.”
Ma come può il curatore ASCOLTARE se non sa relazionarsi con il soggetto che ha di fronte? È sufficiente la normale esperienza di vita che ognuno ha per essere in grado incontrare e rappresentare interamente il mondo del minore?
Occorre tener presente che nel garantire e tutelare i diritti del minore, ovvero nell’offrirgli una vita buona e sicura, il minore è investito da potentissime tensioni ideologiche.
La nostra idea di cosa sia un bambino e di come dovrebbe essere la sua vita è il risultato di stratificazioni storiche, culturali e di dinamiche di potere di cui molto spesso non siamo consapevoli. Ed è proprio questa inconsapevolezza che ci rende ciechi, incapaci di OSSERVARE chi abbiamo davanti, a favore di un’idea astratta di ciò che dovrebbe essere.
Ho assistito di recente una famiglia nella quale c’era un minore; all’inizio di questa storia era solo un infante.
Una schiera numerosissima ed esuberante di professionisti iper-specializzati e super-blasonati hanno deciso per anni le sorti di quella famiglia e di quel minore. I giudici, l’assistente sociale, lo psicologo, gli educatori, gli insegnanti, i medici di vario ordine ed i professionisti sanitari. Una moltitudine di persone capaci, animate dalle più nobili intenzioni, che avevano in mente per quell’infante, che nel frattempo cresceva, la soluzione ottimale, senza riuscire mai ad ottenerla.
In quella famiglia non c’era droga, né delinquenza, né negligenza o abbandono. C’erano delle difficoltà, certamente. Il punto era che le “soluzioni” ai “problemi” che venivano individuati non erano realizzabili, cioè erano irrealistiche. Sia per i tempi lunghissimi dell’iter giudiziale, sia per la carenza strutturale di risorse, sia per l’estrema difficoltà a stabilire un canale di comunicazione efficiente e “pulito” tra tutti i molteplici professionisti coinvolti nella vicenda.
Poi, un bel giorno, entra in vigore la prima parte della c.d. Riforma Cartabia [2] e la Corte d’Appello, innanzi alla quale ormai era arrivata la questione, nomina un curatore speciale del minore.
All’ultima udienza, quando il curatore speciale del minore ha preso la parola, sono rimasta di stucco ad ascoltare come spiegava al Presidente del Collegio che occorreva predisporre una regolamentazione su misura per quel minore, oltre a ciò che è consuetudine fare. Che non era il caso di insistere in soluzioni introvabili e impraticabili e che tale insistenza aveva già causato abbastanza danni e, alla lunga, ne avrebbe causati ancora di più. Che occorreva valorizzare le risorse già presenti, piuttosto che cercarne altre, che, peraltro, non si trovavano. E il mio stupore è aumentato quando, di fronte alle riserve del Collegio, è intervenuto il Pubblico Ministero, dando manforte al curatore e affermando che senza ombra di dubbio ciò che proponeva il curatore speciale del minore si poteva fare ed era anche già stato fatto in altri casi.
Ma come! – ho pensato. Io avevo detto le stesse medesime cose, con le stesse medesime parole per anni e nessuno mi aveva ascoltato! Poi, ho messo da parte il mio orgoglio ferito e ho pensato a quanto sia importante e potente il ruolo del curatore speciale del minore.
Rappresentando il ponte tra il mondo reale del bambino e quello iperuranio del diritto, il curatore può fare da trait-d’union non solo per il Giudice, ma anche da case manager per i professionisti coinvolti.
Sapere cosa sia una famiglia, ogni tipo di famiglia, con le sue dinamiche, i legami, gli attaccamenti e i suoi valori, rende un professionista, anche il curatore speciale del minore, in grado di “osservare”, separando i pregiudizi dalla realtà, facendo emergere valore e bellezza dove altrimenti si vede solo sconfitta e frustrazione.
Sapere “ascoltare” un piccolo umano non è una cosa che si improvvisa. Occorrono pazienza, dedizione e una buona dose di umiltà, caratteristiche non così diffuse, ma quanto mai preziose. In breve, occorrono delle competenze specifiche ulteriori rispetto a quelle meramente giuridiche per evitare che il curatore speciale del minore diventi l’ennesimo professionista che si aggiunge a una lunga schiera, e sia invece un agente di realtà.