Negli ultimi anni si è notato in Italia un aumento di denunce per violenze intrafamiliari.
Ciò che viene denunciato è solo la punta dell’iceberg; la maggior parte dei casi rimane sommerso.
Comunemente la violenza intrafamiliare viene associata agli agiti violenti all’interno della coppia.
La normativa europea e italiana ne danno una definizione molto più ampia che può essere così riassunta: qualsiasi agito violento, di natura fisica e psicologica, che abbia come autore un membro della famiglia che dirige l’agito nei confronti di un altro membro del medesimo nucleo familiare.
Pertanto, la violenza intrafamiliare è denotata da due aspetti fondamentali:
- una relazione parentale tra autore e vittima
- una condotta violenta penalmente perseguibile.
In questo breve scritto si tratterà, senza pretesa di esaustività, la violenza intrafamiliare tra coniugi
Il reato principe è indicato dall’articolo 572 del codice penale “maltrattamenti in famiglia”.
Altri tipi di reati quali le lesioni, le percosse, la violenza privata, la violenza sessuale rientrano nel grande insieme della violenza intrafamiliare.
Tuttavia, tra “il reato principe” e gli “altri tipi di reati” esiste una differenza importante per noi mediatori.
L’agito di lesioni, percosse o violenza privata per essere penalmente rilevante è sufficiente che avvenga anche solo una volta, ma la vittima pur essendo spaventata, arrabbiata, delusa, tradita, umiliata mantiene la sua autonomia decisionale nei confronti di colui che ha commesso il fatto.
Il reato di “maltrattamenti in famiglia” è molto differente. I maltrattamenti possono avere sia natura fisica (lesioni, percosse, violenza sessuale) che psicologica (denigrazione, violenza verbale, ecc.), ma sono reiterati nel tempo al punto di creare nella vittima una sottomissione tale nei confronti del perpetratore che gli impedisce di mantenere una propria autonomia di pensiero e di decisione. L’obiettivo del perpetratore in questi casi è l’annientamento della vittima, il suo completo dominio su di essa.
Cosa facciamo noi mediatori familiari di fronte al dubbio che all’interno di quella coppia ci siano agiti abusanti/maltrattanti?
È utile fare un passo indietro e andare in Gran Bretagna a metà degli anni 70. In quel periodo la Gran Bretagna viveva un aumento dei casi di violenza tra coniugi e la mediatrice familiare Lisa Parkison, in concomitanza con l’esperienza americana, iniziò a proporre la mediazione familiare anche in questi casi.
Dopo la Gran Bretagna fu la volta della Francia, con il metodo umanista di Jacquline Morrineau, e dell’Austria con Christa Pelikan.
La mediazione familiare in Europa è una pratica ormai entrata da anni negli ordinamenti. In alcuni Stati il primo colloquio informativo è obbligatorio (Germania, Grecia, Gran Bretagna ecc).
Con l’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul e il divieto all’obbligo della mediazione familiare nei casi di violenza intrafamiliare, molti Stati, come la Grecia, hanno modificato il proprio ordinamento togliendo l’obbligatorietà della mediazione familiare.
In Gran Bretagna, in Austria e in altri paesi europei la mediazione familiare, con le sue specificità rispetto alla mediazione penale, viene condotta da mediatori formati in casi di violenza tra coniugi. In questi casi la mediazione familiare può rientrare a pieno titolo tra le pratiche di giustizia riparativa, riconosciuta a livello internazionale.
La Direttiva vittime del 2012 prevede che tutti i percorsi di incontro tra vittima e autore di reato siano riservati, ma soprattutto che siano consenzienti.
La predetta direttiva, infatti, ammette la possibilità di percorsi di giustizia riparativa anche per i casi di violenza intrafamiliare, a condizione che l’autore riconosca il suo reato e la vittima acconsenta a incontrarlo.
Cos’è la giustizia riparativa e come si inserisce nella mediazione familiare nei casi di violenza intrafamiliare?
La giustizia riparativa (ristorative justice) è:
(…) un paradigma di giustizia a sé stante culturalmente e metodologicamente autonomo, contenutisticamente innovativo, spendibile in ogni stato e grado del giudizio e volto a rinnovare alla radice l’approccio e la risposta al crimine(…).
Modifica completamente l’approccio alla politica criminale superando la logica condotta criminale/punizione. Il fenomeno criminoso è letto come un conflitto che si instaura tra l’autore del reato, la vittima e la società, poiché tale condotta illecita ha fatto venir meno le aspettative sociali simbolicamente condivise dai consociati.
Il nuovo paradigma portato dalla giustizia riparativa non è più incentrato sulla punizione ma sulla riparazione del danno.
Quando avviene un fatto traumatico, come può essere la commissione di un reato, tra la vita di prima e quella dopo il fatto si crea una crepa. All’interno di questa voragine nascono emozioni e sentimenti quali rancore, rabbia, paura ecc. che vanno ad incidere in modo indelebile sul futuro di chi il fatto l’ha commesso e di chi l’ha subito.
Immaginate quando ciò accade nella relazione familiare; quando il dolore è stato procurato da coloro che sono considerate le relazioni fondamentali della nostra vita.
La mediazione diviene uno strumento per permettere all’autore di reato e alla vittima di far emergere tutto quel vortice di emozioni, di uscire dai propri ruoli di vittima e reo e iniziare a parlare come persone che hanno ritrovato la propria umanità.
Cosa fare quando abbiamo il sospetto che all’interno della coppia che si presenta in mediazione vi sia violenza intrafamiliare?
Le persone che si rivolgono al mediatore familiare non lo fanno per essere valutate né perché si indaghi se all’interno della coppia ci sia o meno violenza, abuso o dipendenze patologiche.
È buona norma, anche deontologicamente parlando, non improvvisare mai, non formulare accuse o diagnosi. Il mediatore non giudica e non valuta; se la coppia viene in mediazione è perché la vittima ha scelto di cambiare radicalmente la relazione e allontanarsi velocemente da casa. Questo nel caso in cui sia la vittima a contattare il mediatore.
La mediazione può essere richiesta anche dal perpetuatore al fine di utilizzare lo spazio di mediazione come uno strumento per continuare a sottomettere la vittima, con il rischio di creare una vittimizzazione secondaria.
Per vittimizzazione secondaria si intende un’ulteriore sofferenza di natura psicologica inflitta a colei/colui che ha già sofferto quella diretta. Il cosiddetto “victim blaming” dipenderebbe, secondo una corrente della letteratura scientifica criminologica, dal far maturare nella vittima la convinzione che si è meritata ciò che gli è accaduto.
In questo caso, il mediatore può inconsapevolmente diventare uno strumento in mano al perpetratore creando nella vittima il fenomeno della vittimizzazione secondaria.
I segnali da non sottovalutare
John M. Haynes incontrò una volta una coppia dove si era palesata una situazione di violenza domestica, rifiutandosi di condurre la mediazione. Dopo poco si rese conto del pericolo che aveva fatto correre alla vittima, con il suo rifiuto, avendola ricondotta tra le braccia del suo perpetratore senza nessuna tutela.
Dopo questo fatto John M. Haynes ha sempre condotto la mediazione familiare anche in casi di violenza intrafamiliare.
Anni di esperienza sul campo lo hanno portato a considerare i seguenti segnali:
- Il partner abusato
- aspetta sempre che sia l’altro a parlare per primo
- guarda sempre l’altro subito dopo aver parlato per controllare le reazioni
- cerca di attenuare tutti i conflitti
- Il partner abusante
- parla molto durante la seduta
- utilizza il linguaggio corporeo per comunicare con l’altro (occhi, postura, espressioni del viso) e anche determinate parole
- ha una lista di lamentele, sembra che il partner non ne combini mai una giusta e l’abusato non è in grado di difendersi
Ogni mediatore prima di intraprendere una mediazione valuta se vi siano o meno i criteri di mediabilità e in particolar modo il livello di squilibrio di potere nella coppia.
Lo squilibrio di potere nella coppia come criterio di mediabilità o meno verrà trattato nel prossimo articolo dove si parlerà anche delle metodologie utilizzate in Europa.