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Era una casa molto carina …

Metter su casa” e “metter su famiglia” sono espressioni tutto sommato equivalenti.

Già solo questa semplice osservazione ci fa capire come sia ingenuo pensare di liquidare la casa nella crisi familiare come una mera questione matematica (la dividiamo) o economica (la vendiamo) o di diritto (c’è il mio nome sul rogito, quindi è mia).

All’Ikea l’hanno capito benissimo. A noi piace immaginare la nostra casa e immaginarci nella casa. Oltre a essere un impegno economico significativo – spesso la casa è l’investimento di tutta una vita – la casa è un nido o un rifugio, ci rappresenta.

Per alcuni, la casa rappresenta la storia della famiglia, un lascito da custodire e onorare.

Io, ad esempio, vivo in un appartamento dove, prima di me con mia figlia, hanno vissuto mia mamma, i miei nonni materni e la mia bisnonna. Quando dico “casa mia” evoco istantaneamente ben cinque generazioni.

Come mediatrice in famiglia, molto spesso ho incontrato delle case dense di storia e di significati simbolici intrinsecamente legati ai suoi abitanti. Purtroppo, i membri di queste famiglie con case così “importanti”, facilmente si ritrovano schiacciati sotto strati di conflitti inespressi o irrisolti, vincoli, ricatti, rimpianti e vendette.

È in questi casi che la casa, che sembra essere l’impasse, è solo il catalizzatore, coacervo di storie ed emozioni da trattare con cura e attenzione

Pensiamo a una casa che è stata fisicamente costruita dai genitori, o dai nonni, mattone dopo mattone, e ora si trova in uno stato di abbandono, fatiscente e pericolosa. Gli eredi che litigano sulle sue sorti, litigano metaforicamente sul loro proprio destino.

Tra di loro, c’è chi ritiene l’idea di vendere inconcepibile: un’offesa imperdonabile. C’è chi vorrebbe la casa tutta per sé pensando magari a una ristrutturazione irrealistica. C’è chi se ne vuole liberare per sollevarsi dalla responsabilità, dalle tasse e forse per alleggerirsi della gestione complicata delle relazioni familiari che la casa rappresenta.

Ma la casa, oltre che a essere la rappresentazione visibile e tangibile di relazioni familiari che sono invisibili, seppure molto reali, ha anche un valore simbolico legato al soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali, come il bisogno di sicurezza, ma anche di appartenenza, incarnando quasi l’intero spettro della piramide di Maslow.

A volte, questo bagaglio significativo che la casa porta con sé, si carica ulteriormente. Magari di senso del dovere, magari di rimpianto o senso di colpa

Pensiamo, ad esempio, a un padre che sul letto di morte ha chiesto ai suoi figli di realizzare quella casa che lui non è mai riuscito a costruire e che affida a loro, più come fardello che come lascito. Nel frattempo però, il tempo passa le cose cambiano. Le aspirazioni antiche diventano anacronistiche, anti-economiche, completamente fuori da un contesto reale. Tuttavia la promessa fatta al padre morente è più forte persino della vita che continua.

In questi casi, come mediatrice, mi concentro prevalentemente su una cosa: essere un agente di realtà.

Queste case, così dense di significato e ricche di storia, come si inseriscono oggi nella vita dell’attuale famiglia? Quali sono i bisogni della famiglia e dei suoi singoli componenti e come concorrono case così “importanti” a soddisfarli?

Mi sono trovata di recente in situazioni in cui le case “importanti”, chiamiamole così, impedivano alla famiglia di guardare al futuro, creando una situazione stagnante e insostenibile dal punto di vista familiare e personale. Quindi mi sono chiesta, come si può guardare al futuro e al contempo onorare il lascito che la casa rappresenta, senza che questo impedisca alla famiglia e ai suoi membri di crescere e di evolvere, ma si possa invece guardare al presente e al futuro senza falsi miti?

Mantenere a ogni costo la promessa fatta ad un genitore in punto di morte, può essere la rovina economica e delle relazioni familiari se viene interpretata letteralmente, invece di guardare ai bisogni che la richiesta fatta dal genitore tendeva a soddisfare.

Qual è il significato che occorre trovare e attualizzare nella richiesta di un genitore che lascia “una casa” da costruire ai figli, dopo la sua morte?

Cosa volevano dire, il papà o la mamma, quando hanno detto: “Costruisci la casa che io non sono riuscito a fare?” Cosa voleva quel genitore? Un insieme di mattoni e tubature, o piuttosto voleva garantire la sicurezza, il rifugio e l’unità familiare che la casa rappresenta?

Passare da un piano concreto, ovvero la casa di mattoni, a un piano diverso in cui la casa rappresenta il benessere della famiglia e la qualità delle relazioni dei suoi componenti può essere difficile.

Soprattutto quando gli eredi non elaborano appieno il lutto per la perdita del genitore e ancora di più quando gli eredi litigano tra di loro, esacerbando una vita di ferite e di relazioni difficili.

In questo caso, mantenere la promessa tout court, senza guardare al suo vero significato e, soprattutto, senza fare un esame di realtà, che comprenda lo sviluppo e la trasformazione della famiglia, sotto il profilo dei membri che la compongono e dei loro interessi e bisogni, delle significative ragioni economiche che la costruzione di una casa implica, può essere una vera e propria rovina.

Ancora la famiglia a un passato e a un futuro idealizzato, invece di radicarla nel presente e in un futuro possibile e positivo.

Una casa costruita senza guardare alla realtà presente della famiglia è una promessa tradita, perché non ci si prende cura delle relazioni che la casa vorrebbe significare e dovrebbe garantire. In mediazione, si può scoprire che onorare la promessa fatta al genitore morente significa, innanzitutto, prendersi cura delle relazioni in famiglia, prima che dei mattoni e delle questioni ingegneristiche.

Vivere appieno una vita ricca e bella è il miglior omaggio che si possa fare ai propri antenati.

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