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La trappola del legame disperante

Amami o odiami, entrambi sono a mio favore. Se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore … se mi odi, sarò sempre nella tua mente.

La fine di un’unione, senza dubbio, rappresenta un importante cambiamento che coinvolge inevitabilmente l’intero progetto di vita. Determina il necessario riassetto di tutti gli aspetti dell’esistenza, anche in termini di quotidianità.

Questo passaggio obbligato, molto spesso, spaventa fino a divenire, nei casi più compromessi, impossibile.

In alcune situazioni la separazione è irrealizzabile.

Il timore del cambiamento, il terrore di perdersi, la disperazione, lo smarrimento, la solitudine, divengono un’ossessione che si trasforma, giorno dopo giorno, in una lotta continua, alimentata da ogni e qualsiasi pretesto, che consentirà alla coppia di mantenere, comunque e a qualunque costo, un legame.

Di qualsiasi natura esso sia, purché sia un legame

In tali situazioni, l’altro, a cui si attribuiscono tutte le colpe, è considerato come la personificazione del “male”. Viene di continuo alimentato il desiderio di distruggerlo, sotto ogni aspetto (personale, psicologico, giuridico ed economico), al fine di vendicarsi del torto subito.

È il “legame disperante”: un malessere soggettivo che non consente alla coppia di raggiungere il cosiddetto divorzio psicologico.

In questi casi, se da una parte l’unione non può essere mantenuta poiché altamente distruttiva, dall’altra parte, recidere il legame comporterebbe una profonda angoscia necessariamente da evitare poiché troppo dolorosa.

All’interno di queste “unioni” non vi è alcuno spazio per l’elaborazione del dolore causato dalla possibile separazione.

Nella normalità dei casi, questo passaggio è indispensabile per condurre alla fine del conflitto e all’inizio di una nuova vita per ciascun membro della coppia.

Il legame è disperante e, proprio perché tale, è caratterizzato da un fortissimo senso di disperazione

Persiste una speranza, che si potrebbe definire patologica, che induce a perseverare nei propri comportamenti, nel chiedere all’altro, che non è più disponibile, amore, attenzioni e cure.

Molto spesso, i partner coinvolti in tali legami finiscono per confondere tale sentimento con l’intensità dell’amore, senza però rendersi conto che l’amore non può essere distruzione di sé stessi o distruzione dell’altro.

Di base, in tutte le coppie unite da legami disperanti, esiste un’impossibilità psicologica di riconoscere la propria sconfitta affettiva tanto da costringersi, o costringere l’altro, a sopportare l’intollerabile, nel disperato tentativo di tenere in vita una relazione di coppia che non può più essere in alcun modo né salvata né “riparata”.

Sono persone che, per quanto possano vivere soli o con i figli, tornare nelle famiglie d’origine o stringere nuovi rapporti, sembrano rimanere rimuginanti e, dunque, dominate proprio da quella relazione interrotta.

In tale dinamica, è possibile osservare un blocco che porta i soggetti coinvolti a vivere nel passato

Nel tentativo di mantenere l’intera vicenda in una sospensione indefinita e scongiurare, quindi, eventi minacciosi può succedere che: 

  • ci sia una costante richiesta “all’altro” della scelta
  • si rintracci sempre “nell’altro” la causa e la fonte di vita
  • si proietti “sull’altro” la colpa

In alcuni casi, qualcuno nella coppia non può smettere di sperare in quel rapporto. La fine del legame è intollerabile e l’insopportabile timore della solitudine impedisce una qualsiasi elaborazione del dolore. 

In altri casi, invece, uno dei due partner, nel tentativo di mostrarsi capace ad affrontare una separazione, “si toglie di dosso l’altro” annullandone e distruggendone la presenza.

Queste situazioni gravemente patologiche, spesso degenerano in quello che viene definito “mobbing familiare”, prima, e nella “sindrome di alienazione genitoriale” (PAS), poi.

La letteratura riconduce l’attitudine del soggetto a tollerare l’intollerabile, a sopportare l’insopportabile, in cambio di qualche minima e occasionale briciola di felicità, a un tratto psicologico che si sviluppa dalle carenze e dalle inadeguatezze sopportate nella primissima infanzia, nel rapporto affettivo con le figure genitoriali.

Sia che la separazione coniugale avvenga sia che i coniugi rimangano assieme, la continuazione di un rapporto con tali caratteristiche finisce per assorbire ed esaurire gran parte delle funzioni genitoriali

Ne risulta un accudimento carente in cui i figli non possono essere ascoltati e supportati nei loro bisogni evolutivi o, ancor peggio, un’evidente impossibilità dei genitori di essere fonte di cura e sostegno per i propri figli.

In alcune situazioni, gli ex partner si scontrano nelle aule del Tribunale che, se eccessivamente frequentate, possono solo aggravare il conflitto.

Sono questi i casi in cui gli ex partner, alla precedente collusione amorosa ormai rotta, oppongono un’illusione sostitutiva nei reiterati atti giuridici che diventano, così, contenitori impotenti di una sofferenza insopportabile sfogata ma non rielaborata e mentalizzata.

Nella separazione conflittuale, per almeno uno dei due partner, il distacco assume il significato di una “rottura interna”. Il senso di identità personale è compromesso e il graduale allontanamento dagli investimenti emotivi-affettivi e dal progetto di vita è ostacolato. Questo scenario impedisce di giungere al vero e proprio “divorzio psichico”.

L‘impossibilità emotiva di separarsi mantiene i coniugi in un “legame disperante”, servendosi di ogni mezzo. Anche i figli possono essere utilizzati come strumento per raggiungere questo obiettivo. Il fine è quello di mantenere in vita la relazione, qualunque essa sia  (Cigoli, Galimberti e Mombelli, 1988).

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