Nel periodo in cui arriva da me una coppia di genitori che chiede aiuto perché non riesce a gestire, ad accettare che la loro figlia abbia dichiarato la propria omosessualità, ecco che dalla rete mi arrivano questi feed back.
Un video, terribile, di una ragazza poco più che ventenne che denuncia cosa è stata costretta a subire dalla sua famiglia, in modo particolare dalla madre, dal momento in cui si è finalmente dichiarata.
E un articolo di Internazionale che raccoglie invece la testimonianza di una madre, tra l’altro famosa e appartenente al mondo dello spettacolo, che nell’immaginario collettivo è l’ambiente dove queste difficoltà sono già ampiamente superate.
Partiamo da qui, per cercare di capire perché, ancora oggi nel 2021, sembri impossibile per molti genitori accettare l’omosessualità dei propri figli.
Apparentemente sembra tutto facile, anzi di più, facilitato.
Alcuni pensano con sincerità che dichiararsi omosessuali rappresenti un vantaggio, una via preferenziale per il successo e l’approvazione generale: si sente parlare spesso da una parte dell’opinione pubblica di lobby omosessuale, espressione che risale addirittura agli anni ’60 del secolo scorso, attraverso la quale si vorrebbe far passare l’idea che esista una potente “cricca sociale” che occupa posizioni di rilievo nel campo dello spettacolo, della moda, dell’informazione e della politica.
Ma a questa immagine distorta della realtà, fanno da contraltare le testimonianze di vita vera, come quella della coppia che è arrivata alla mia osservazione chiedendo un Supporto alla Genitorialità.
Una coppia “normale”, di età compresa fra i sessanta e settant’anni, di cultura e ceto sociale medio-alto, amorevole con i propri figli “normali”; una coppia come migliaia di altre. Forse milioni.
Non esistono statistiche che indichino il disagio e la difficoltà che hanno ancora oggi i genitori quando sono costretti ad affrontare la realtà: nella loro famiglia “normale” esiste un figlio che normale non è, è omosessuale.
L’apprendere questa notizia non è soltanto un prendere atto del frantumarsi di sogni e aspettative che si erano riversate su quel figlio: avrebbe dovuto avere una vita “normale”, quindi avrebbe dovuto trovare un partner di sesso diverso dal suo, avrebbe dovuto sposarsi o comunque convivere, e magari avrebbe dovuto avere dei figli.
Non era solo questo il problema che irrompe nella quotidianità di questa coppia.
La cosa più difficile e dolorosa che mi portano, è soprattutto il rendersi conto della assoluta impossibilità di accettare una realtà che non è quella immaginata.
È il confrontarsi con i propri pregiudizi, con i propri grandissimi limiti
Limiti che riguardano in primis l’amore che credevano di provare incondizionatamente per i propri figli; e di cui ora non sono più sicuri.
Lucia e Adriano, chiamiamoli così anche se non sono i loro nomi reali, erano sinceramente convinti di amare i propri figli così com’erano e che niente avrebbe potuto fare vacillare questa convinzione.
Fino a che i figli si sono comportati in maniera conforme alle loro aspettative, tutto ha confortato la loro convinzione, ma nel momento in cui qualcosa è deragliato da quei binari che sembravano già tracciati a prescindere, tutto il castello delle loro certezze non solo è vacillato, ma è miseramente crollato. Gli si presentava davanti una sfida che non pensavano di poter risolvere, perché “la possibilità di avere un figlio omosessuale non ci aveva mai nemmeno sfiorato”.
Durante i colloqui, la mia restituzione continua ha portato Lucia ad esplicitare che il problema maggiore per lei era la paura: paura del giudizio degli altri, paura di questa “nuova” figlia, paura di ciò che avrebbe dovuto subire.
Per Adriano invece il problema maggiore era capire come fosse stato possibile che accadesse: i suoi figli erano stati cresciuti tutti allo stesso modo, con gli stessi principi e gli stessi esempi, quindi com’era possibile che gli altri tre fossero venuti su bene e questa no? Ed inoltre: era proprio necessario che la figlia, ormai una professionista affermata più che quarantenne, sentisse il bisogno di parlarne con loro? Lui avrebbe preferito non sapere.
Il lavoro fatto insieme
Lucia, Adriano ed io abbiamo spostato continuamente il punto di vista, allargando la prospettiva in modo tale da avere una visuale molto più ampia di quella che appariva ai loro occhi fino ad allora.
Insieme abbiamo cercato di aprire la finestra sulla possibilità di apprendere nuove parole e di liberare quelle vecchie dalle incrostazioni di concetti, per esempio la parola figlio e la parola amore, la parola normale (che loro usavano spessissimo) o la parola vergogna.
Abbiamo accettato la sfida, che credevano di non poter risolvere, utilizzando occhi nuovi, prima di tutto per guardare meglio questa figlia che loro sembravano non riconoscere, e che invece era sempre la loro “bambina”, anche se si era innamorata di una donna.
La difficoltà maggiore è stata affrontata da Adriano, in quanto era difficile il solo parlarne; continuava a ripetere che lui avrebbe fatto finta di non sapere, e si sarebbe comportato come se tutto questo non fosse accaduto.
In realtà, il sincero amore di questi genitori nei confronti della figlia ha fatto da leva per scardinare un po’ alla volta, con fatica e tanti stop, tutti i paletti che si erano costruiti e dietro i quali cercavano di difendersi strenuamente.
La mia continua rassicurazione nel considerare la loro reazione non li ha mai fatti sentire giudicati, e questo ha permesso ad entrambi di sentirsi accolti in tutte le loro difficoltà e i loro disagi.
Abbiamo analizzato i pregiudizi con il microscopio dell’entomologo, osservandoli cioè con spirito scientifico cercando di liberarli dal vissuto emozionale.
Insieme abbiamo immaginato il dopo, provando a visualizzare situazioni già vissute alla luce della nuova realtà
Il confronto con me e fra di loro alla fine ha portato questi genitori a vedersi, e a vedere la loro famiglia e il contesto sociale nel quale vivono in modo diverso e nuovo; e ad accettare che qualcosa non fosse esattamente così come loro si aspettavano che fosse.
Da ultimo hanno acquisito la consapevolezza che se vogliamo che le cose cambino dobbiamo impegnarci in prima persona, e quindi che la società continui a discriminare o meno dipende da tutti noi, nessuno escluso.
Compreso quindi Lucia e Adriano.