Ricordo molto bene la prima lezione del corso di Mediazione Familiare, quando la docente chiese a ognuno di noi quale fosse la definizione che immaginavamo più appropriata per la figura del Mediatore.
Risposi che per me il Mediatore avrebbe dovuto essere un traduttore.
Mi sembrava che all’ interno di una coppia in crisi si parlassero due lingue non solo differenti, ma appartenenti a ceppi linguistici diversi, per i quali fosse appunto necessario l’intervento di qualcuno che rendesse possibile un collegamento efficace fra i coniugi
Una delle definizioni che vengono date al Mediatore Familiare è proprio quella del professionista che ristabilisce la comunicazione nella coppia, interrotta o che non funziona più.
Colui che ha l’obiettivo di restituire ai confliggenti lo stesso codice di comunicazione.
La comunicazione, quindi, come punto focale all’ interno di un processo che dovrebbe permettere ai coniugi di dire, e ascoltare, il reale significato di ciò che viene vicendevolmente comunicato.
Ma quale comunicazione?
In Italia la Mediazione Familiare appare alla fine degli anni 80, con la fondazione dell’associazione GeA (Genitori Ancora, fondata da Fulvio Scaparro e Irene Bernardini). Poco più di 30 anni fa dunque. Ma se pensiamo questo intervallo di tempo dal punto di vista della comunicazione, quegli anni ci appaiono lontanissimi quasi quanto il Pleistocene.
Allora gli strumenti deputati alla comunicazione erano essenzialmente due, le lettere e/o il telefono.
Se due persone avevano difficoltà a dirsi le cose guardandosi negli occhi potevano farlo al telefono (dove comunque esisteva il dialogo – più o meno efficace – fra i due). Oppure al massimo ci si scriveva una lettera.
I conflitti, i litigi avvenivano per lo più di persona e la comunicazione (verbale e non) era diretta, senza alcun filtro o distanza.
Internet e i cellulari non esistevano ancora. L’avvento dell’uno e degli altri hanno portato una rivoluzione nelle vite di ciascuno di noi che è stata al di là di ogni immaginazione.
Anche – se non soprattutto – nella comunicazione.
Come si colloca allora il Mediatore Familiare nel suo ruolo di traduttore e di ponte comunicativo, dovendosi confrontare con gli strumenti che oggi si utilizzano per comunicare?
Questa domanda, e la conseguente riflessione, mi è sorta nell’incontro con persone o coppie sempre più spesso in gravi difficoltà.
Non perché parlano senza comunicare, come accadeva fino a qualche anno fa, ma perché comunicano senza parlarsi. Mai.
Grazie a una coppia venuta in Mediazione Familiare, ho scoperto per esempio che uno dei modi che vengono usati per comunicare con il proprio coniuge o compagno sono i cosiddetti stati di WhatsApp.
Nella diffusissima applicazione di messaggistica esiste infatti la possibilità di cambiare il proprio “stato” quando e quanto si vuole. Di decidere chi potrà vedere ciò che si scrive o si pubblica, escludendo occhi indiscreti che potrebbero guardare lo stato sull’app.
Attraverso questo sistema sempre più persone inviano messaggi al coniuge.
Escludendo altri occhi da questo scambio “privato”, possono poi assicurarsi che il destinatario abbia visto. E magari compreso.
Perché ciò accada il partner deve sapere che potrebbe arrivare qualcosa attraverso questo canale e sia quindi disposto ad andare a controllare lo “stato” dell’altro.
Il problema sorge quando lo stato di WhatsApp non viene modificato con questo intento, ma per esempio soltanto perché si desidera condividere una foto, un meme, un aforisma come solitamente avviene con tutti i social.
La coppia che seguivo era arrivata sull’orlo della separazione per equivoci e fraintendimenti nati da questi comportamenti.
Entrambi usavano questo sistema per inviare messaggi subliminali al partner, senza mai discuterne poi di presenza.
Il marito, su consiglio di un amico, a un certo punto aveva smesso di utilizzare questa modalità poiché si era reso conto della sua pericolosità. Tuttavia, aveva continuato a modificare sporadicamente il proprio stato per il solo piacere di condividere contenuti.
A un certo punto anche la suocera, la mamma della moglie, aveva iniziato a guardare gli stati dei due. Cercava di carpire qualche segno indicatore sullo stato di salute della loro relazione – che indubbiamente presentava qualche criticità – e aveva incominciato ad insinuare dubbi nella figlia.
Quest’ultima è precipitata pian piano nel panico. Prima di tutto non capiva la ragione della diminuzione dei messaggi. Poi ha iniziato a interpretare comunque quei pochi che vedeva come diretti a lei.
Da quel punto in poi è stata un’escalation di follia.
Quando sono arrivati da me lei era convinta che lui la tradisse e fosse pronto a lasciarla per l’altra (che non esisteva). Lui era convinto che alla moglie fosse sopraggiunta una qualche patologia psichiatrica (oltre che desideroso che la suocera venisse divorata dal mostro di Lochness).
Ho faticato non poco per riportarli in una dimensione di realtà, nella quale hanno ricominciato a parlarsi di persona.
Per lungo tempo questo è accaduto solo durante la seduta.
Da questi coniugi ho saputo che una coppia di loro amici usava solo il messaggio vocale per comunicare qualcosa di importante che riguardava la loro vita coniugale.
Niente di ciò che veniva detto nei vocali era affrontato poi la sera a casa, quando ciascuno dei due faceva finta che non si fossero detti niente. Il marito, che era l’amico del mio cliente – quello che lo aveva messo in guardia – aveva addirittura comunicato alla moglie che la lasciava, con un messaggio vocale.
Incredula, ho via via scoperto che questi mezzi sono oggi i più largamente usati dalle giovani coppie, senza che nessuno venga sfiorato dal dubbio che comunicare così possa creare confusione ed equivoci a cascata.
Qual è la ragione – mi sono chiesta- di queste scelte?
La risposta che mi sono data, ma non so se sia quella giusta, è che queste coppie e quindi queste persone siano totalmente disconnesse. Detto così sembra un paradosso, visto che oggi siamo continuamente connessi con l’intero pianeta.
Ma la connessione a cui mi riferisco è quella con il proprio sentire. Se io non riesco a sentirmi, e ad ascoltarmi, come posso farlo con l’altro?
Mettendo un filtro fra me e il partner riesco a tenere sotto controllo l’ansia che il contatto diretto, faccia a faccia, potrebbe provocarmi. Nel mio monologo non devo prestare attenzione a ciò che l’altro potrebbe ribattere. Quando e se riceverò la sua risposta avrò tutto il tempo per pensare ad una replica che sia la più adeguata possibile.
Evitando il confronto diretto si ha probabilmente l’illusione di tenere sotto controllo le emozioni, che inevitabilmente emergerebbero se il dialogo avvenisse di persona.
Inoltre, in un’epoca intrisa di narcisismo in ogni ambito, anche il messaggio vocale ne è un esempio.
Manca totalmente lo scambio in tempo reale durante il quale io devo in qualche modo collegarmi all’altro: Narciso guarda sé stesso riflesso, e l’altro né lo vede né lo ascolta.
Affidare le nostre parole, i nostri bisogni, le nostre emozioni ai messaggi vocali o agli stati di WhatsApp ci dà l’illusione di collocarle in un iperspazio (un cloud?) lontano da noi, con la vana speranza di un coinvolgimento minore, e quindi di minore sofferenza.
Saremo in grado, mi chiedo, noi Mediatori di essere all’altezza delle sfide che in questi tempi così complicati ci vengono lanciate?
Io penso di sì, anche perché la stessa Mediazione è per sua natura una sfida. Accoglierne altre e di nuove fa parte della nostra Professione.
Questa riflessione mi ha portato a pensare che il ruolo del Mediatore oggi è ancora più difficile e complicato, e forse ancora più importante. Non è più necessario solo riallacciare la comunicazione all’interno di una coppia in crisi, ma diventa indispensabile alfabetizzare e rieducare alla comunicazione, poiché non è possibile riconnettere ciò che non si conosce, ciò che si ignora.
Tutto questo cercando di rimanere entro i limiti che la nostra professione comporta. Mantenendoci stabili in un equilibrio instabile, che è proprio una delle principali caratteristiche del Mediatore Familiare.