Il mediatore familiare non improvvisa il proprio intervento, anche se agisce nel contesto dell’hic et nunc. Si avvale di una tecnica specifica, di principi e metodologie che danno al proprio agire una direzione volta al raggiungimento di una soluzione che soddisfi entrambi i mediandi.
Lo scopo del mediatore è rendere questi ultimi consapevoli delle proprie risorse individuali e di coppia. Accompagnarli, durante il processo di mediazione, ad acquisire un bagaglio di consapevolezze e un’autonomia che permetta loro di proseguire il cammino di vita nella piena capacità di comunicare e vivere i conflitti. Che è, in ultima analisi, lo scopo dell’educazione.
Educare significa promuovere nel soggetto in formazione la capacità e il desiderio di assumersi la responsabilità del proprio percorso esistenziale: Il termine deriva da educere, che significa tirare fuori, ma anche nutrire, far fiorire, sviluppare. Tutte azioni che non possono prescindere dal concetto di cura e da un agire che si identifichi in un “prendersi cura”.
Il mediatore, promuovendo l’autonomia dei soggetti, attraverso il riconoscimento delle proprie consapevolezze, agisce pedagogicamente
Ha cura che i mediandi apprendano ad aver cura di sé, del proprio esserci. In che modo, però, il mediatore familiare riesce ad esprimere questa cura? Non separandola dalla tecnica ma dando a quest’ultima la connotazione della cura essendo il processo di mediazione un processo di cura esso stesso.
Come a dire che le tecniche di mediazione possiedono un carattere intrinseco di cura.
Il verbo “stare” è quello che definisce meglio tutta la dinamicità dell’interazione tra mediatore e mediandi. Descrive il senso di abitarla, di viverla pienamente, di assumere le posture più consone alla situazione.
Il mediatore è sempre proteso alla trasformazione e al cambiamento e, contemporaneamente, sempre orientato da un’intenzionalità che funge da orizzonte pedagogico. Non si sottrae alle sfide e si assume consapevolmente il rischio di stare nell’incertezza, di vivere con una certa inquietudine la responsabilità di lanciare prospettive di autonomia e libertà.
In questa relazione, il mediatore esercita innanzitutto una pratica. Usa metodi e strumenti tra i quali il dialogo, un esercizio che produce un cambiamento. Attraverso le domande il mediatore è in grado di controllare la validità delle proprie ipotesi, confermate o smentite dalle risposte dei clienti, di scartare quelle inadatte e modificare la direzione delle proprie azioni.
L’atto di curare la relazione, nel processo mediativo, rimanda ai significati di cura
Come attenzione all’altro, come sensibilità all’altro, condivisione, come comprensione e come sintonizzazione, come accoglienza ed esperienza di contenimento. Il mediatore costruisce un ambiente facilitante per indirizzare allo sviluppo e al cambiamento.
Il suo movimento verso l’altro non può autenticamente compiersi senza che abbia prima dato avvio alla cura sui, ovvero a quello sguardo e al riconoscimento profondo di sé, dei propri movimenti emotivi, che consente di poter offrire all’altro lo spazio di apertura necessario, scevro da rumorosi e meccanici preconcetti.
Si tratta della neutralità del mediatore, della sua capacità di essere equiprossimo, di far sentire i mediandi ascoltati in modo equo e soprattutto senza giudizio. C’è pure la sensibilità del sentirsi toccati dall’altro, tanto nella forma dell’empatia quanto nella compassione.
È la riscoperta di una ragione “altra”, “materna”, della capacità di “pensare con il cuore”. In concreto, significa rispondere attivamente al bisogno dell’altro con premura e sollecitudine, essere disponibile a fare quanto necessario e quanto è possibile per il benessere dell’altro. Questa disponibilità va dichiarata, affinché l’altro sappia che su di noi può contare.
La cura è una “persona” che impasta l’argilla, che dà forma all’essere, che agisce
Ci si trova, dunque, di fronte al fenomeno della cura quando si incontra una persona che agisce, con i gesti e/o con la parola.
Il mediatore familiare è archetipo di questa cura, risponde ai bisogni reali dell’altro con significatività e discrezione, sa individuare il modo migliore dell’agire educativo dentro al processo di mediazione, appropriato alla singolarità di ogni persona e alla sua esperienza peculiare che sta vivendo e sa valutare costantemente il proprio operato.
La saggezza educativa del mediatore non è l’espressione di una razionalità pura. È una competenza complessa che si nutre sia di ragioni del cuore sia di quelle dell’intelletto. Si nutre di una ragione materna e paterna, accudisce e guida, cura e fornisce una direzione di senso.
“L’essenza della competenza tecnica dell’educatore non consiste soltanto nel possedere tecniche didattiche, piuttosto è un testimoniare la passione, autentica e sincera, per la verità.”
Luigina Mortari
Articolo della dott.ssa Cristina Roccatagliata
Consulente Mediatore Familiare
Allieva della Scuola Buzzi – Brahmaputra Onlus