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La famiglia degli emarginati: house system e ballroom culture

Qual è la base strutturale di una famiglia?  

Questa domanda, apparentemente semplice, potrebbe essere colorata con una risposta diversa a seconda del vissuto di ciascuno di noi. Se fosse rivolta ad una persona LGBT+ nell’America degli anni ‘60, la risposta potrebbe riferirsi ai concetti di house system e ballroom culture.

Per chi non fosse affine con queste due espressioni vediamo di fare chiarezza.

Alla fine degli anni ‘60 scoprire di appartenere alla comunità LGBT+ era considerata una vergogna, soprattutto all’interno delle già discriminate comunità di afroamericane o di latini. Il rischio che la famiglia di origine cacciasse di casa il “deviante” per allontanare l’onta e preservare la propria immagine era molto alto. Soli e abbandonati a loro stessi, questi giovani finivano inevitabilmente ai margini della società dove provavano a sopravvivere con tutti i mezzi a loro disposizione.

Gli spazi presso i quali tendevano a raccogliersi erano quasi sempre le periferie dove venivano offerte poche alternative. I lavori più gettonati rischiavano di essere giri di prostituzione e/o droga. A volte, si aveva la “fortuna” di trovare supporto da parte di altri membri della comunità.

Il quartiere di Harlem, a Manhattan, costituì punto di riferimento per veri e propri gruppi organizzati, dove ognuno partecipava alla vita domestica come poteva.

Nascono, così, convivenze non legate da vincoli di sangue e/o parentela. Ciascun membro veniva salvato dalla strada e apportava un contributo col proprio lavoro.

A lungo andare, questi legami divennero più stabili e basati su regole e “gerarchie”. In tal modo, si creò un sistema non diverso da quello di una famiglia (house system). Una nuova declinazione  intesa come un gruppo di esseri umani che condivide mutui legami.

Ciascun casato (o house) si dotava di un cognome (spesso molto originale) che veniva ereditato da tutti i componenti e tramandato ai successivi entranti. Spesso, a capo di ciascun casato vi erano “madri” (solitamente drag queen o donne transgender) o “padri” (uomini omosessuali o uomini transgender) appartenenti ai membri anziani o in vista della scena delle ballroom.

Come abbiamo visto, la funzione principale dei casati era quella di essere famiglie alternative, un rifugio sicuro per coloro che venivano ostracizzati dalla cultura convenzionale.

Durante i week end o le festività, queste casate si ritrovavano negli scantinati di Harlem  (ballroom) a competere tra di loro in gare di ballo e sfilate al fine di ottenere una certa fama e notorietà.

Infatti, fare parte di una delle famiglie più blasonate significava ottenere il grado di legendary e il conseguente rispetto all’interno della comunità.

La sfide si consumavano all’interno di categorie tra le più disparate, tra le quali ricordiamo:

  • le sfilate (runways) dove venivano sfoggiati vestiti stravaganti e valutati sulla capacità dei partecipanti di camminare come top model
  • la categoria face (o viso) dove si valutava la capacità di “vendere” il proprio viso esaltando le qualità attraverso trucco, gestualità ed espressioni
  • la categoria lipsync dove gli sfidanti dovevano dimostrare di seguire alla perfezione il testo di una canzone senza cantarla ma solo imitando il/la cantante
  • il vogue (declinato a sua volta in varie sottocategorie), reso famoso dalla celebre canzone di Madonna, dove veniva valutata la capacità di danzare e utilizzare gestualità e le camminate tipiche del voguing.

Il tutto era accompagnato da iconiche frasi del presentatore che sono vive tutt’ora nella cultura americana televisiva e cinematografica.

Il vogue è diventato, forse, il simbolo più conosciuto di questa cultura. Viene considerato un vero e proprio linguaggio, oltre che una forma d’arte.

I ballerini comunicano tra di loro a suon di pose e vogue, raccontando una storia di conflitto e di invisibilità che narra le proprie origini e il proprio vissuto personale.

Il vogue è pura istintualità, libertà di movimento a ritmo di musica e coordinazione con gli altri ballerini. Non esistono coreografie predefinite. La narrazione si esprime attraverso l’uso delle mani in movimenti quasi ipnotici, camminate seduttive e passi di danza acrobatici.

Tutti erano benvenuti sulla pista da ballo e ciascuno aveva la possibilità di esibire il proprio talento a seconda di ciò che stava perfezionando. Una vera e propria cultura di accoglienza e valorizzazione degli esclusi.

Ciò che era stato scartato veniva “raccolto” e sviluppato nel suo potenziale. Il concetto di realness era proprio quello di poter essere sé stessi, anche solo per una serata, eliminando in quel momento i vincoli imposti dalla società.

Il messaggio di base che muoveva questo tipo di cultura era una celebrazione della vita e della comunità LGBT+, un inno all’esistenza. 

loveislove

La realtà delle house e delle ballroom era vivere, per pochi momenti, una fantasia. Entrare in un paese delle meraviglie dove era concesso essere tutto ciò che si desiderava. Si era liberi dal giudizio (ad eccezione di quello dei giudici di gara), allo stesso tempo non vi era né satira, né caricatura.

Non è, infondo, quello che ciascuna famiglia aspira ad essere?

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